Antonio Stoppani: l’incendio sul monte San Martino

Divagazioni di uno che di Stoppani non sa quasi nulla

 

Primavera 1878. Il racconto di Stoppani dell'incendio al monte San Martino

Il racconto di Stoppani dell’incendio al monte San Martino della primavera del 1878

 

“Si può applicare alle nazioni quell’adagio nosce te ipsum, conosci te stesso, che la sapienza dell’antichità ha posto come base alla conoscenza dell’individuo?”.
Inizia così l’introduzione a Il Bel Paese, l’opera più conosciuta di Antonio Stoppani. E continua: “L’autore di questo libro crede talmente di sì, che riterrebbe tempo gettato quello che s’impiegasse a dimostrarlo”. Conosci te stesso, inteso da Stoppani, non riguarda solo l’individuo ma l’intera nazione, e non riguarda solo la conoscenza della storia ma anche la conoscenza del mondo fisico, del territorio e dell’ambiente.
“Non contesta l’autore alle scienze morali e politiche il primo posto nel nobile arringo. Egli sa benissimo che il mondo fisico non desterà mai quell’interesse che desta il mondo morale.[…] Una Lucia inginocchiata ai piedi dell’Innominato, una madre che accomoda con le stesse sue mani sul carro degli appestati il corpo della figlioletta, faranno sempre maggiore impressione di tutte le più belle descrizioni dell’universo.”
Nonostante questo, Stoppani è determinato a fare entrare nella letteratura popolare anche opere di carattere naturalistico. Oltre che naturalista, Stoppani è anche un patriota. Ha partecipato ai moti rivoluzionari del 1848 contro gli austriaci, e sente il bisogno di diffondere conoscenze naturalistiche su un’Italia riunita da poco, forse anche al fine di rafforzare l’identità nazionale.
“Nelle condizioni politiche che resero per tanto tempo gli italiani stranieri all’Italia, [..] siamo arrivati a tale che gli italiani conoscono assai meglio la costituzione fisica dell’altrui che del proprio paese”.
Nel periodo in cui l’Italia è rimasta divisa e in condizioni piuttosto arretrate, nel resto d’Europa le scienze naturali avevano avuto un notevole incremento. Il colonialismo aveva permesso agli studiosi di esplorare la Terra in lungo e in largo. Il collezionismo naturalistico era molto diffuso nelle aristocrazie. Sul lago di Como, in questo periodo, gli aristocratici di Villa Melzi a Bellagio sfidavano i proprietari della villa antistante a colpi di rarità botaniche, dalla sequoia all’albero della canfora. Questo interesse naturalistico, e la miriade di osservazioni effettuate, hanno prodotto teorie scientifiche assolutamente rivoluzionarie, in primo luogo la teoria dell’evoluzione delle specie in base a selezione naturale di Charles Darwin, contemporaneo di Antonio Stoppani.
Stoppani non mostra interesse per l’evoluzionismo. Non credo sarebbe mai potuto arrivare a questa teoria per svariati motivi: Darwin era inserito in un substrato culturale e tecnico nettamente più avanzato. Era in collegamento con scienziati sparsi in tutto il mondo che gli inviavano lettere, disegni e fotografie degli organismi più svariati, con zoologi e medici che gli inviavano i risultati delle autopsie, le osservazioni sugli embrioni e sui feti. L’escavazione dei canali, nell’Inghilterra della sua epoca, aveva dato ai geologi la possibilità di osservare i fossili nei vari strati geologici, e di osservare le differenze tra strati depositatisi in tempi diversi.
I risultati della geologia del suo tempo permettevano a Darwin di ottenere informazioni importanti sugli ambienti che visitava. Sapere che le isole Galapagos erano di datazione recente, unitamente alla famosa osservazione dei fringuelli e delle loro differenze nel becco tra un’isola e l’altra, costituivano elementi che hanno permesso a Darwin di sviluppare negli anni successivi la teoria dell’evoluzionismo.
Stoppani non condivideva la teoria dell’evoluzionismo anche perché, probabilmente, da religioso non poteva accettare l’idea di un universo sviluppatosi sulla base delle forze cieche e probabilistiche proprie della teoria darwiniana. Il cristianesimo, insieme alle altre grandi religioni, sosteneva che l’universo rispondesse a un disegno. Platonicamente, esisteva nell’iperuranio di turno un disegno di uomo, di animale o di pianta, che si realizzava per opera di un dio benevolo nell’animale o nell’uomo fisico come specie fissa, predefinita e universale. Ma la concezione darwiniana è, si può dire, al di là del bene e del male. Il concetto stesso di specie era per Darwin, e lo è tutt’ora, una approssimazione e non credo che Stoppani fosse nelle condizioni di accettare la visione di un universo non finalistico, in cui l’uomo e gli altri viventi non sono progettati a priori per un fine specifico.

In un ritratto del pittore Piero Todeschini, eseguito nel 1920 sulla base di una fotografia, Stoppani compare vestito da abate. Nella parete dietro di lui ci si potrebbe aspettare un crocifisso, ma l’autore ha scelto di inserire l’immagine di un quadro che rappresenta un Resegone roseo, illuminato dal sole in un tramonto invernale. Gli occhi vivaci di Stoppani sembrano muoversi a seguire l’osservatore nei suoi spostamenti. Anche se abate, Stoppani non era tanto un tipico esponente delle gerarchie ecclesiastiche, quanto piuttosto un appassionato alpinista, professore universitario, studioso di geologia e di paleontologia, principalmente del triassico locale. Appassionato alla realtà fisica, osservatore di pipistrelli e di animali di altre specie. Raccoglitore e collezionista di fossili, chiama la nostra era l’era antropozoica. Era dotato di una spiccatissima sensibilità ambientale ed è stato un pioniere nel considerare l’impatto dell’uomo sui complessi equilibri ambientali.
E’ motivato a portare la cultura scientifica anche a livello popolare, ed è in questo contesto che è stato scritto il racconto dell’incendio sul San Martino della primavera del 1878.
E’ un racconto che si svolge in famiglia. Ne Il Bel Paese compare in appendice. Non ha particolare rilevanza scientifica ma la sua capacità di descrivere ci parla del suo intenso interesse per la natura, la meraviglia che dimostra nel descrivere i luoghi e gli eventi è la stessa che lo spinge alla ricerca e alla conoscenza. In fondo tutto nasce dalla meraviglia, diceva Aristotele pensando alla conoscenza.


L’Incendio del Monte San Martino

di Antonio Stoppani

 

 

1. Il monte San Martino.

2. Profilo di Napoleone.

3. L’inverno del 1878.

4. Primavera anticipata.

5. I venti di marzo.

6. L’apparenza inganna.

7. Il San Martino in fiamme.

8. L’incendio cresce.

9. E’ all’apogeo del suo furore.

10. Battaglia contro il fuoco.

11. Il nemico è vinto.

 

 

 

 

 

1. « Stasera il signor zio ha salata la sua conversazione.

Lo metteremo in castigo ». Con questo ed altri simili complimenti fu salutata dai nipoti la mia comparsa nella sala in quell’ora su per giù in cui d’ordinario l’altre volte la brigata si scioglie.

– « Ma!… non ci ho colpa!… » gridai, cercando di vincere il frastuono di tante voci. « La colpa è del vapore che subì un ritardo ».

– « Tu arrivi da lontano dunque: d’onde vieni? », domandò più d’una voce.

– « Da Lecco ».

– « Da Lecco? e ci sei andato?… »

– « Fin dalla settimana scorsa. Che volete ch’io facessi qui con quella baldoria del carnevalone ambrosiano? E proprio il momento di scappar via quando tanta gente ci vien dal di fuori a pagar caro delle vecchie disillusioni, quando non sia di peggio. E fui contento, vedete… A parte la disgrazia a chi le è toccata… non dico… ma uno spettacolo simile non mi era mai capitato di vederlo ».

– « Che cosa ti è capitato? »

– « M’è capitato di veder bruciare una montagna ».

– « Una montagna!… » e qui tutti a ridere.

– « Vi pare strano, n’è vero? Difatti, che s’incendino le steppe della Russia o le foreste dell’America, si capisce; si tratta d’erba o di legna. Ma che il fuoco s’appicchi ad una montagna, e proprio ad una delle montagne più nude, più sassose che s’incontrino sulla faccia del globo… »

– « Ebbene, raccontaci », pregò la Chiarina.

– « Ma è tardi… però una mezz’oretta di più non guasta. Sentite: avete letti i Promessi Sposi?… » Tutti si misero a ridere. « Scioccherelli! non capite? è una figura rettorica. Si suol domandare anche le cose di cui si è più certi, per cavare dalla risposta la conseguenza che si vuole. La conseguenza ch’io volevo cavare dalla vostra risposta, che era per me già certa, è questa che, se avete letti i Promessi Sposi, dovete sapere che c’è e dove è posto il monte San Martino, che è appunto il primo di quei due monti contigui, di cui parla la prima pagina del vostro libro prediletto. E’ un monte fantastico, vedete; tutto una rupe, nuda, aspra, angolosa, degna di campeggiare in un’epopea di giganti. La città di Lecco si appoggia da tramontana a quello stempiato macigno; e gli é obbligatissima che, slanciandosi ritto come un muraglione ciclopico, difenda, se non lei propriamente, almeno il suo ridente territorio dai gelati aquiloni, e riverberandovi i raggi solari, spesso vi anticipi la primavera nel cuor dell’inverno.

« IL San Martino sorge col suo fianco occidentale immediatamente dal Lago, come una bastia di pietroni a picco, quasi dappertutto inaccessibili, da cui le frane sterili ed aspre discendono sino al fondo di quello specchio del più cupo azzurro, che s’inabissa a’ suoi piedi fino alla profondità di 150 metri. Più su, quella parete a piombo si alza a scaglioni giganteschi, formando di tratto in tratto pianerottoli e piani inclinati, sempre intramezzati da altre pareti a picco. Da mezzodì, ove la montagna e più nuda, sporge innanzi nuda nuda la fronte, e nel mezzo di questa si apre un antro spazioso, come una gran cicatrice, o come l’occhio di Polifemo: segno probabile, come ce n’è tant’altri nelle Prealpi, che il mare una volta ci avventava i suoi flutti.

Intendetemi bene. Non e che il mare si levasse fin là; gli è che il San Martino, come le Prealpi e le Alpi, come tutte le catene del globo, sorsero dal mare; e quindi ci fu tempo che le conchiglie e i pesci del mare abitavano quegli stessi crepacci, ove ora s’annidano il passero solitario ed il falco; e come oggidì sulle coste della Calabria e della Sicilia, cosi allora, al piede delle montagne nascenti, rimbombavano gli antri scavati dalla tempesta.

« Al disopra di quella rupe e di quella caverna, la montagna continua a salire in forma di piramide, o piuttosto di pina composta di rupi acute e vertiginose. Dal vertice di essa si discende verso oriente, sempre d’un modo, fin dove la base della montagna è rosa all’ingiro dalla Galavesa, detta anche Gerenzone, che è il più settentrionale di quei tre grossi torrenti, di cui, nella stessa pagina dei Promessi Sposi, avete letto che formarono coi loro depositi la costiera del lago.

« Eppure questa montagna la quale, vista da Lecco, sembra affatto inaccessibile, non è tale però che non ci si possano fare delle gite piacevoli ed anche facili. Proprio sulla fronte, dove sopra la base così scoscesa della montagna comincia un pochino di pendio, una macchietta bianca attira a sé gli sguardi di ognuno che giunga a Lecco per la via di Bergamo o di Milano. E’ la cappelletta di San Martino; e chi la vede per la prima volta, non la potendo credere un nido d’aquila o di falco, e forza che domandi a se stesso chi mai abbia potuto, non dirò fabbricare delle mura, ma nemmeno portare il piede lassù. Eppure ci si va cosi bene! Dapprima per una valle, o piuttosto per una specie di crepaccio nascosto in seno alla montagna; poi per una serie di scogli, che formano come una specie di gradinata. Che vista stupenda si gode da quel breve pianerottolo sul quale è edificato l’umile tabernacolo! E di là un sentiero assai comodo, benché quasi volante su precipizi vertiginosi, attraversa tutta la montagna dalla parte del lago, finché vi conduce in un seno, coperto di prati e di boschi, con in mezzo una chiesuola ed un fabbricato, il quale, benché denominato comunemente convento di San Martino, non è e non dev’essere mai stato altro che una stalla. Oh com’è delizioso quel posto! Com’è dolce, in mezzo a quella specie di anfiteatro, che si direbbe il tempio dell’aridità, trovare una così bella verdura! e la sotto, un piccolo antro nella rupe, che accoglie un piccolo stagno, nutrito da una fonte fresca e perenne, che ha tutta l’aria di un perenne miracolo. E poi, e poi…

2. « Non la finirei più, quando parlo de’ miei monti. Quanto al San Martino, so di un celebre paesista solito dire che è la montagna più bella del mondo. Ed e tale principalmente per il contrasto tra quel colosso di rupi ignude che si slancia così ardito nell’aria, e le sue falde, sparse dapprima di cespugli e di querce, poi di cipressi, di edere, di lauri, di ulivi, a boschetti, a macchie sempre verdi; e più basso, di case e di paeselli, finché tutto diviene un gran gruppo di abitati, quasi una sola città che discende giù, come un fiume di case, fino a Lecco, fino alla riva del lago, in mezzo ai campi ed alle vigne, fra il rumore incessante di cento e cento officine, dove il ferro e la seta si lavorano con pari abbondanza, e quasi con pari finezza. Lasciatemi dire anche questa, e poi ho finito. Il monte San Martino ha la singolare proprietà che il suo fianco, dove discende verso il lago, visto di sera, quando il buio ne confonde le disuguaglianze, disegna, con rassomiglianza meravigliosa, il profilo di Napoleone dormente, assai più colossale del Colosso di Rodi. Non gli manca né la fronte protuberante, né il gran naso aquilino, né il mento d’un ovale perfetto. Lo si vede benissimo disegnato, o dalla via di Bergamo presso Chiuso, a mezzodì, o dalle pendici sopra Menaggio a settentrione. Ed ora basta.

3. « Siamo già verso la metà del marzo e dura ancora il bel tempo: il tempo veramente eccezionale di quest’inverno. E’ vero che il gennaio fu assai rigido in Lombardia e in tutta l’Italia; ma che importa il freddo, quando splendono giorni cosi sereni, che danno luogo a notti cosi stellate? quando insomma si vive sotto il cielo di Lombardia, cosi bello quando è bello? Il febbraio poi, primavera spiegata. Mantelli e pastrani si dimenticavano sugli attaccapanni, o si portavano sciolti o sbottonati, inutile peso alle spalle sudanti. Il carnevalone ambrosiano aveva tutte le condizioni di una riuscita straordinaria, salvo i danari. Quando le industrie sono avvilite come quest’anno, quando il danaro non basta alla fame, non ne rimane per il bagordo.

4. « Ma il mio carnevalone era bello, era allegro anche più degli altri anni. Il cielo sereno; il diadema de’ miei monti, ch’ero solito vedere in questa stagione sparso e anche coperto di nevi non biancheggiava che per la nativa bianchezza delle dolomie che ne forman le vette. Sul Resegone soltanto, apparivano in fondo ai burroni, quasi fettuccia d’argento, alcune strisce, rimasugli delle scarse nevi cadute nell’invernata. Lì in fondo, verso tramontana, dove il lungo bacino del Lario si presenta come un gran palco scenico, a quinte di rupi e di monti cosi frastagliati, così fantastici, si vedevano le Alpi. Di solito, in questa stagione non presentano che un grande nevaio tutto d’un pezzo. Quest’anno tutt’altro: un mantello di neve, ma ragnato e lacero, da cui traspariva il nudo dei negri dirupi. E i fiori?

« Di vederne quanti ne vidi a Lecco, là al piede delle Alpi, non me l’aspettavo certamente. Sui poggi aprichi, lungo i torrenti, le mammole si sarebbero raccolte a corbe. Come vi avrei voluto meco in quella passeggiata che feci allo Zucco, ora villa Salazar, ed una volta palazzotto di don Rodrigo! I nespoli del Giappone, in piena fioritura, riempivano l’aria d’un gradito profumo; le magnolie, non già chiuse in forma di cornetto acuto, come sogliono vedersi al principio di marzo, ma sbocciate ed aperte, spiegavano tutta la pompa verginale della bianca corolla; i magliuoli delle viti che vantano i gloriosi nomi di Tokai e di Pinot, avevano i lucciconi, talché ogni tralcio pareva uno zampillo di diamanti. Ché! piangevano di consolazione. Vaghe farfalle vivaci e fresche, libere svolazzavano di fiore in fiore, mostravano di credere in buona fede che sul loro mantello variopinto si frangessero i raggi del sole di maggio. Ma ogni rosa ha le sue spine ed ha i suoi malanni il bel tempo. Che farete, povere farfalle, se il freddo, tornando, come fa tante volte, vi getterà assiderate sulle gelide zolle? Che farete, poveri fiori, se verranno le brine a spegnere nel vostro seno le vendemmie e le messi? Ah, quanti ne uccide la troppa fretta di vivere!

« Son questi i malanni consueti che porta il bel tempo quando è fuor di stagione. Ve n’è poi qualcuno di straordinario, ma che non avviene così di rado in quei posti come forse potreste immaginarvelo. Statemi a sentire.

5. « Ho detto che il febbraio era già primavera spiegata. Il marzo peraltro, appena nato, non dimenticava del tutto le sue infauste tradizioni. Non potendo dare i meno soliti trattenimenti della pioggia e della neve, ci voleva divertire colle immancabili repliche senza richiesta, soffiando con quanto fiato aveva in corpo. S’immagini, dopo una lunga stagione cosi asciutta, come voluminosi e densi dovevano levarsi, rotolando sul piano e sul monte, i nembi di polvere. C’è un proverbio che dice:

Quando piove e tira vento,

chiudi l’uscio e sta in convento.

Era proprio il caso; perché è tale il vento di Lecco che, non pago di accecarti e insozzarti le narici colla polvere, è capace di assalirti con una grandinata di sassolini, che ti feriscono il viso come mitraglia di spilli. Pensate come dovevano trovarsi sotto quel vento che li essica sin nel midollo, sulle montagne aride per natura, le erbe, le stoppie, gli sterpi, i cespugli, risecchi già da due mesi di siccità invernale! In tali condizioni, già più volte ai miei dì si erano desti gli incendi sui monti. Un contrabbandiere che, accesa la pipa, gettò il fiammifero sull’erba; un gruppo di fanciulli sbadati, che vengano in giro senza badare qual sarà il fine della piccola baldoria accesa per trastullo in fondo alla valle: un boscaiolo che lasci in quel seno di monte la brace che gli ha cotta la polenta… basta insomma un nonnulla ad appiccare un incendio che può diventare una calamità. Anche quest’anno, pochi giorni prima ch’io giungessi a Lecco, si era appiccato il fuoco sul Resegone. Mi si disse che per una notte l’incendio era spaventoso a vedersi; ma la mattina seguente era già spento ».

– « Ma che ?» interruppe la Giuseppina: « si sarebbe appiccato il fuoco anche al San Martino? »

6. « Capisco ciò che vuoi dire; hai ragione: il San Martino si direbbe veramente una negazione di quanto v’è a1 mondo di vegetabile, di combustibile, d’incendiabile. Peraltro v’ho anche detto che non è poi tutto sasso quel monte, come sembra a chi lo miri dal piano; ed ora aggiungo che la sua fecondità è mille volte maggiore di quella che a prima vista si crederebbe. E’ proprio il caso di ripetere il proverbio che l’apparenza inganna. Il San Martino, cosi nudo come appare, è un vero legnaio, magro se volete, ma vasto. Dove cessa il bosco, continua la macchia; e dove questa si arresta, c’è ancora spazio sufficiente per cespugli, sterpi e zolle erbose. Le vallate, i burroni, che a cento a cento si nascondono in un labirinto di rupi inaccessibili, sono altrettante conserve, dove da anni, da secoli, si accumulano i seccumi di quella vegetazione sparpagliaticcia, formando uno strame fitto, che é quanto di meglio per alimentare un incendio. Il fuoco del resto, lo sapete, è tale elemento che non teme le ascese, le rupi, i precipizi. Lasciate a lui la briga di sorprendere quella pianta che si curva sola sull’abisso, colle radici entro il fesso di quella rupe fuor di piombo; di scovare nella valle più nascosta, nel burrone più profondo, se c’è un alberello, un vecchio tronco, uno sterpo, un ciuffetto d’erba secca. Tutto è buono alla sua fame rabbiosa, e insaziabile sempre.

7. « Siamo al di 6 di marzo. Mi avevano detto che il giorno prima s’era visto del fumo sul San Martino. Ma il giorno 6, mentre si scendeva in giardino verso le sette di sera, quand’era già buio, è apparso presso la cima del monte un singolare chiarore. Che è? Si è supposta dapprima una meteora: infatti aveva l’aria di una cometa, che nascondesse il nucleo di là dal monte, spiegando al di qua un pennacchio luminosissimo. Ma quel pennacchio è fisso… s’ingrossa… in breve ci avvediamo che è fuoco, e che arde in un burrone presso la vetta. Il fumo, illuminato dalla vampa nascosta, si faceva visibile, simulando benissimo la coda di una cometa. Ma quella coda s’ingrossa sempre più: si risolve in globi che si distendono largamente sulla cima del monte; finalmente ecco il fuoco, ecco le fiamme!…

« Mi ricordo .che, dopo essere rimasto in casa fin verso le nove e mezzo, uscendo osservai la vetta del San Martino che pareva un vulcano in eruzione. Il vento soffiava fortissimo: un gran fuoco, sorgente da diversi centri, illuminava spaventosamente con tutte le gradazioni più sinistre del rosso, del giallo, del livido, quel gran gruppo di rupi, e lanciava in alto colonne di fumo similmente lumeggiate, che si riunivano in un sol nembo livido e paonazzo . Nessun timore perchè… Il fuoco é sulla cima… Qualche po’ di danno ai proprietari e tutto finirà lì.

8. « La mattina del 7 infatti non si vedeva più nulla: il giorno poi era così bello, che, a dispetto del vento, volli fare una passeggiata nel territorio a cui, come dissi, il San Martino fa eccellente riparo. Venuta la sera, l’incendio co’ suoi spauracchi m’era già uscito affatto di mente. Ma intanto sapete? il fuoco, cosi alla chetichella, fingendo, per astuzia di guerra, di aver abbandonato il campo, era passato semplicemente sull’altro versante del monte, dove, serpeggiando fra zolla e zolla, fra rupe e rupe, era disceso a cercarsi un pascolo più abbondante. Infatti la mattina del giorno 8 il fumo saliva in colonne così grosse di là dal monte, che lo credetti un nembo cacciato dal vento di tramontana. Ma quel nembo non si muoveva di là; si rizzava denso denso in globi vorticosi, formando una specie di cortina, allungata nel senso della valle boscosa che si trova sul lato settentrionale della

montagna. Certamente il San Martino da quel lato era tutto un incendio. Benché splendesse il sole, scorsi benissimo tra il fumo certe strisce come di vivo sangue, che dicevano fiamme, e sembravano arrampicarsi come serpenti di fuoco sulle rupi a picco che m’avevo di fronte. Seppi più tardi che le popolazioni di Abbadia e di Mandello erano in moto per arrestare i progressi dell’incendio.

9. « Intanto il fumo si vedeva guadagnare di nuovo l’erta, e guadagnare per altra via alla vetta. L’incendio cresceva, si dilatava sempre.

Che spavento la sera, quando tutta la montagna apparve seminata d’incendi, che confondevano le loro fiamme in una sola immensa vampa! A sinistra dove la montagna discende verso il Lago, il suo fianco pareva una cascata di fuoco, che di rupe in rupe discendesse fin quasi al piede del monte. Più in su non si vedeva che fumo rimanendo i fuochi nascosti dalla montagna; ma la vetta era di nuovo tutta in fiamme anche al di qua, e in fiamme del pari i pendii da levante verso la Valsassina. L’incendio aveva un’estensione di quattro o cinque chilometri almeno. Che sinistra impressione. Io lo stavo guardando in silenzio, e ne seguivo coll’occhio stupefatto i formidabili progressi. Il vento urlava forte; qua, là, questo, quel punto della montagna si vedeva ad un tratto accendersi e fiammeggiare. Sembrava che il fuoco procedesse a salti, a capitomboli, su, giù, come un forsennato. Si spegneva a destra, si riappiccava a sinistra; moriva alla sommità della rupe, rinasceva al piede. Ogni vetta era una fiaccola, e cordoni di fiamme delineavano, in mezzo alle tenebre, le valli e i piani inclinati, che l’incendio andava via via guadagnando. Come si vedeva il fuoco arrampicarsi ardito, rabbioso, sulle rupi più verticali! Si cominciava a temer qualcosa di grave. Non poteva forse il fuoco discendere verso il territorio di Lecco, dove è tutto dapprima un bosco d’olivi, di viti, di piante fruttifere, poi un bosco ancora più fitto d’opifici e di case?

« Vegliai fin verso mezzanotte, ritornando di tratto in tratto ad osservare. Ero tentato di portarmi verso quelle cime; ma di notte, con quel freddo, con quel vento indiavolato, senza nessuna possibilità di giovare… via, la sarebbe stata una pazzia, e una pazzia da quand’ero giovane. Ne ho fatte anche troppe allora di questo genere.

10. « Levatomi verso le cinque ch’era ancor buio, dovetti sgomentarmi davvero. Dalla vetta della gran rupe a picco che sovrasta ai paeselli di Castione e di Rancio, i carboni erano precipitati al basso, appiccando l’incendio alle macchie che ricoprono la prima porzione del pendio verso l’abitato. Di là fine al lago non c’è più altro, che boschi, prati, campi, vigne e case. Il vento continuava a soffiare; l’incendio avrebbe potuto dilatarsi presto in basso, e come porre un limite a quell’elemento distruggitore? Intanto le campane sonavano a stormo, e seppi poi che i contadini erano stati in moto tutta la notte. Ma le difficoltà non erano poche. Anzitutto, impossibile salire a spegnere il fuoco su quelle alture inaccessibili. Bisognava contentarsi di aspettarlo al varco, quando accennava di discendere pù basso, e combatterlo dove la natura del suolo si prestava ad impegnare un combattimento. Ma che fare in quei luoghi senz’acqua? Quando armeggiando di mani e di piedi s’era riusciti a domare l’incendio in un punto, una buffa di vento lo spingeva di lancio un chilometro in là. La battaglia non era poi senza pericoli. I sassi che, staccati dal monte per effetto del gelo, o arrestati sulla frana, non avevano altro sostegno che tronchi, cespugli, arbusti o bruciaglie, man mano che questi erano consunti dall’incendio, rotolavano al basso con evidente pericolo della gente che saliva. Aggiungi un’orda di serpi, che già mezzo deste dai tepori primaverili anticipati, si destavano affatto all’appressarsi dell’incendio, e discendevano furiosamente in basso, cercando uno scampo ed incutendo spavento. Sfortunate le lumache, celebri per la grossezza e l’abbondanza in quei posti dove passano l’inverno sotto lo strame, per uscirne in primavera, facile preda di chi osserva religiosamente l’astinenza quaresimale. Quest’anno saranno cercate invano: se n’è sdigiunato anzi tempo l’incendio.

11. « Intanto il fuoco era contenuto e ricacciato anche sulle alture, dove andava morendo per difetto d’alimento. Addì 9 di marzo il fumo è ancor forte, ma sempre in diminuzione. La sera di questo stesso giorno il fuoco divampa verso il lago; ma presto si spegne. Verso la Valsassina invece ha tuttora l’aspetto d’un incendio, ma pare stanco e ristretto. In quel posto, dopo la mezzanotte, una nuvola di fumo, leggera, stagnante, lumeggiata come da una pallida fosforescenza, dice che il vento è cessato, e il fumo non si leva che sopra un braciere semispento, ove l’incendio dà gli ultimi guizzi. Siamo, grazie a Dio! all’alba del 10 marzo: il cielo è sereno, bello, tranquillo: nemmeno una nuvola nell’aria, né una fumaiola sul monte. Dell’incendio non rimane che il danno, che dev’essere rilevante. Tornate dunque a casa, dove potete andare a letto tranquilli »

La brigata si sciolse protestando che voleva un compenso alla troppo corta serata.